
Famiglia straniera cacciata da un bar di Spello, il bagno è per i clienti
Quanto è accaduto in un bar di Spello, non scriviamo volutamente dove è collocato, è aberrante. Una famiglia straniera, peruviana per l’esattezza, viene cacciata un malo modo – dal video sembra anche violentemente – dal negozio perché chiedeva di andare in bagno e la toilette, in quel luogo è utilizzabile solo dai clienti. Vi riportiamo il racconto di Sonia Garcia, scritto sul portale medium.com. Il sito, se le nostre ricerche non ci ingannano, ha sede ha Seattle negli Stati Uniti d’America. Il testo che vi riportiamo qua sotto è scritto in perfetto italiano però, segno evidente che Sonia Garcia la lingua la conosce bene.
La cerchiamo, la troviamo e ci parliamo. Inutile dire che è delusa per quanto è successo e, passato il primo – comprensibile momento di diffidenza nei nostro confronti – si apre e parla volentieri con noi.
«Vorrei – dice al telefono – che queste cose non accadessero più, in nessun luogo e neanche a Spello»
Certo la cosa ha, semplicemente, dell’incredibile, soprattutto se si pensa che è accaduta in una città, come Spello, che appartiene ai Borghi più belli d’Italia, dove l’ospitalità e il rispetto sono fra le tante caratteristiche necessarie per entrare nell’Associazione, e così come con tanta fatica di entra, altrettanto rapidamente se ne esce. Ci prefiggiamo, nei prossimi giorni, di sentire il parere del sindaco della città, Moreno Landrini.
Aggiungeremo anche il video, dove, opportunamente, cancelleremo i nomi propri che vengono pronunciati nella animatissima discussione. Tanto chi sa di esser coinvolto lo sa senza che noi rincariamo la dose, ma, credeteci, lo sdegno è profondo. Lo è soprattutto per la grande bellezza della gente di Spello, per la grandiosità della storia di quello che è un vero e proprio affresco umbro. Senza tema di essere smentiti crediamo che la Colonia Julia sia davvero un fiore (paese delle Infiorate no?) all’occhiello della meravigliosa terra umbra.
Ci auguriamo anche che, dopo tutto quanto è successo, sia lo stesso sindaco (e lo aiuteremo a ritrovare questa famiglia ndr) inviti queste persone a tornare in città, affinché Spello e la sua Gente possano accogliere come sempre la Colonia ha accolto i turisti. Abbiamo numero di telefono e mail di Sonia Garcia che vive in Italia da anni.
Il video, rispetto all’originale che si trova su youtube, è manipolato volutamente affincé non si riconoscano le voci (per i volti ci ha già pensato Sonia Garcia). A noi preme che il sindaco della Città prenda posizione e chiami questa famiglia, magari invitandola per le Infiorate e colga l’occasione per mostrare Spello come realmente è: una città la cui bellezza ha pochi eguali in Italia.
(il Direttore)
Le parole di Sonia Garcia
Non abbiamo mai granché festeggiato Pasqua in famiglia — non siamo religiosi— ma se c’è la possibilità di stare insieme lo facciamo. Quest’anno c’è stata, così sono scesa in Toscana, dove vivono i miei, a passare del tempo con loro. Il programma era quello di passare la giornata sull’altopiano di Castelluccio di Norcia (PG), nel cuore dei Monti Sibillini, al confine tra Umbria e Marche. In primavera l’altopiano fiorisce, e dalle foto sembrava davvero suggestivo.
Domenica 21 aprile partiamo in tarda mattinata da Arezzo, imboccando una serie di provinciali e infine la E45 (la 75 ndr Centrale Umbra) . Lungo la via, superata da poco Perugia, avvistiamo un borgo medievale arroccato su un colle, di fianco alla superstrada. “È Spello! Vi va di fare un giro?” chiede mio babbo. Sono cresciuta in Toscana e sono particolarmente familiare con questo tipo di borghi, ma Spello non l’avevo neanche mai sentito nominare. Con mia mamma rispondiamo in coro che sì, ci va eccome. Sono da poco passate le 12.
Parcheggiata la macchina fuori dalle mura, ci incamminiamo verso il centro, circondati da un discreto numero di turisti. È Pasqua, e sono prevalentemente famiglie come la nostra. Facciamo tappa al bar che si affaccia sull’omissis… Ha tutta l’aria di essere uno di quei bar storici di paese. Ci avviciniamo al bancone per acquistare un pacchetto di gomme. Nel bar c’è abbastanza via vai.
Noto che sulla destra c’è una piccola stanza ristretta con dei tavoli, verso cui si stanno incamminando una signora e sua figlia piccola. Deduco che è il bagno. Mia mamma sta pagando, e le faccio un cenno per dirle che intanto mi accodo di là, che devo usarlo anch’io.“Ti raggiungo,” risponde.
Faccio in tempo a vedere la porta del bagno chiudersi, dopo l’ingresso della signora con la bambina. Mi fermo lì davanti, e aspetto. Tempo pochi istanti e mi rendo conto che qualcuno mi sta fissando, dalla sala principale. È una signora sulla sessantina, che, da dietro il bancone, è protesa in avanti, con gli occhi piantati su di me. La guardo interrogativa. “Il bagno è solo per i clienti,” mi dice, “non puoi stare lì.” Convinta di aver capito male, le rispondo che ho appena consumato. Lei non si sposta di un centimetro e ripete, “Il bagno è solo per i nostri clienti.”
Mi avvicino al bancone da dove la signora è affacciata, e le rispondo nuovamente, con una risata imbarazzata, “Ho consumato, ho visto che sono entrate due persone prima di me… non mi pare abbia chiesto la stessa cosa anche a loro.” La signora è irremovibile, “Il bagno è solo per i nostri veri clienti. Voi non lo siete. Avete consumato?” I miei si avvicinano, allarmati. “Sì,” rispondiamo. A questo punto da dietro il bancone appare un secondo signore, sempre sulla sessantina, presumibilmente il marito di lei. “Cosa avete consumato? Fate vedere.” Mio babbo porge lo scontrino: 2 euro di gomme da masticare. Il signore lo guarda e fa, “Pff, 2 euro di gomme non bastano. Non se ne parla. Fuori di qui! Ora metto il bagno guasto, e voi andate nei bagni pubblici.” Pietrificati, osserviamo il signore entrare nel passaggio e chiudere la porta del bagno. Prendo il telefono e inizio a fare un video.
Il signore mi vede e mi dà una manata, puntando al telefono. “Non puoi riprendermi! C’è la privacy.” Chiediamo di ripetere ciò che ha detto, sul perché non possiamo usare il bagno. Di risposta, il signore si fa ancora più aggressivo e continua a ripetere che non possiamo riprenderlo. A un certo punto sbotta: “Chiamo i carabinieri.” “Sì, li chiami!”, fa mio babbo, ormai anche lui visibilmente alterato. La signora prende a urlarci, minacciosa, di andare via. “Fuori! Chiamiamo i carabinieri!”, fa col dito puntato verso l’esterno, come con i cani. Ci spostiamo inevitabilmente verso il centro del bar, tra l’indifferenza degli altri clienti. Nessuno di loro apre bocca.
“Ha fatto entrare altre persone in quel bagno, ma noi no?” chiedo alla signora. “No,” risponde, “perché questa è casa mia, e a lei non ce la mando in bagno. Fuori!”
“Non riprendere il mio locale,” continua a intimarmi il marito. Tutto a un tratto, il suo principale problema è quello: ce ne dobbiamo andare perché non possiamo riprendere il suo locale. “Perché non ve ne andate nei bagni pubblici? A’ sporcaccioni, sudicioni, sporchi! Fuori!” grida la moglie, “Andate via! Zozzoni!”
“Basta, ci stanno registrando! Quella stron…” ribatte il marito, indicando me.
Lei pare aver recepito il messaggio, e cambia strategia. Deve contestualizzare quell’insulto. “Avete riempito il bagno di merda! Voi!” riprende la signora, sempre guardando verso di me. “Ah sì? Noi chi? Ci siamo mai entrati?” rispondono i miei, atterriti quanto me. “Voi! Te, lui e lei.”
“Lascia perdere omissis,” fa il marito, “ci stanno provocando.” No, non lo stiamo facendo. Non abbiamo fatto nulla, volevamo entrare in bagno… rispondo, con voce rotta. Mio babbo e il signore discutono a gran voce. La signora, da dietro il bancone, lancia rabbiosa una tazzina di caffè a mia mamma. Non la prende, ma il gesto mi spaventa. “Mamma andiamo via, questi sono pericolosi,” le dico mentre cerco di allontanarla dal bancone. Interrompo il video.
Seguono minuti di caos patetico, in cui mia mamma cerca inutilmente un dialogo con il signore, a cui mi oppongo per ovvi motivi. Se non si sono fatti problemi a tirarci addosso una tazzina, chissà cosa può ancora succedere.
I presenti nel bar restano imperturbabili, forse a questo punto un po’ infastiditi dal chiasso. Una signora vicina alla cassa chiede a mio babbo cosa stia succedendo. “Non ci vuole far usare il bagno…” “Ma avete consumato?” “Sì.” Alza le spalle e si gira dall’altra parte. Un signore con un calice di vino in mano viene verso di me e, serafico, mi fa cenno di lasciare stare. La sua espressione è pacata, come se stesse assistendo a un battibecco tra bambini capricciosi. Capisco che dobbiamo davvero andarcene. Lo capiscono anche i miei, e, senza rivolgerci una parola, ci dirigiamo verso l’uscita. La saracinesca è mezza abbassata, immagino per non attirare troppo l’attenzione da fuori.
Usciamo dal bar in uno stato d’animo che sul momento era impossibile da processare, e che, almeno per me, ha avuto più effetti negativi a posteriori. L’intera vicenda è durata al massimo 5/6 minuti. Facciamo un giro per Spello ancora frastornati, e al ripassare davanti al bar, notiamo che ha chiuso.
Dopo un breve ma necessario conforto reciproco, abbiamo convenuto che per quel giorno era meglio lasciar perdere: non eravamo disposti a buttare definitivamente via la giornata per andare a piangere dalle forze dell’ordine. Siamo andati lo stesso sui monti Sibillini, abbiamo fatto i turisti, cercando di non pensare troppo a quanto successo. Mi sono solo promessa che, a mente calda o fredda, ne avrei scritto in seguito.
Abbiamo sporto denuncia il giorno dopo, a Pasquetta. Alla parola “razzismo” i carabinieri hanno sbuffato: “Il razzismo è una questione delicata e soggettiva, ma se insistete possiamo scrivere ‘discriminazione razziale’ in fondo alla denuncia.” Avevamo fatto bene a non occuparcene il giorno stesso.
Una volta tornata a casa, il responso delle persone consultate su quanto accaduto era unanime: pubblica il video, scrivi un post su Facebook, rendilo virale. “Virale” era la parola che più veniva ripetuta, ormai me ne ero inconsciamente appropriata anch’io. “C’è bisogno di fare coscienza, il video va fatto vedere.” Sul momento ci ho creduto, anche perché ero certa che la coppia avrebbe diffuso la loro versione inventata di sana pianta: famiglia di immigrati vandalizza il bagno del nostro bar, ma vogliono farci passare per razzisti.
Ho contattato una di quelle pagine clickbait che vivono della capitalizzazione di questo tipo di incidenti, con il solo fine di diffondere il più possibile quell’unica prova che avevo di come erano andate veramente le cose. Dopo aver girato loro il video, ho scritto e parlato per telefono con una persona interna alla redazione, che pareva interessata all’accaduto. “Il video è sgradevole, ma poco chiaro,” risponde inizialmente. Mi affretto a fornire ulteriori dettagli sulla vicenda, arrivando ad allegare le foto della denuncia sporta ai carabinieri. Nessuna risposta.
Era diventata una situazione paradossale: per giorni ho aspettato un feedback di una testata i cui incassi derivano quasi interamente da traumi come il nostro, senza risultato. Per aziende come quella a cui mi ero rivolta la giustizia sociale è innanzitutto fonte di guadagno. Esperienze come la nostra vengono prima rese appetibili al grande pubblico, poi gettate loro in pasto in forma di contenuti d’intrattenimento/virali, infine monetizzato il traffico che questi generano sui social.
Se tutto fosse andato a buon fine, il nostro sarebbe stato l’ennesimo video di Facebook o YouTube intitolato “Gestori di un bar negano l’uso del bagno a famiglia peruviana. ‘Sporchi sudici, questa è casa mia e qui non ci potete stare.’” Sono grata che le cose siano andate diversamente.
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