
Caso Alma Shalabayeva, una trattativa tra Procure, c’è anche quella di Perugia
di Giacomo Amadori (La Verità)
Il processo sulla controversa espulsione dall’Italia della cittadina kazaka Alma Shalabayeva potrebbe custodire un clamoroso retroscena. Infatti quel procedimento, secondo l’ex pm Luca Palamara, sarebbe stato al centro di una trattativa tra i magistrati di Perugia (che hanno indagato sul presunto sequestro di persona) e quelli di Roma (che avevano fatto espellere la donna in quanto clandestina e con documenti falsi).
La rivelazione è contenuta nel libro intervista Il Sistema che il direttore del Giornale Alessandro Sallusti ha realizzato con lo stesso Palamara. In uno dei capitoli si fa riferimento alla guerra che, per questioni di nomine, per lungo tempo si erano fatti il procuratore di Perugia Luigi De Ficchy (titolare delle azioni penali nei confronti dei colleghi capitolini) e quello di Roma Giuseppe Pignatone. Un giorno, i due vengono messi uno di fronte all’altro al bar Vanni di Roma dallo stesso Palamara e «la conversazione riservata si svolge in una sala privata al piano superiore».
Però, come sottolinea Palamara, «la pace siglata tra i due durerà molto poco: di lì a breve la Procura di Perugia aprirà un’indagine nei confronti di uno dei più stretti collaboratori del procuratore Pignatone». Infatti l’aggiunto Antonella Duchini apre un fascicolo sull’espulsione della Shalabayeva e iscrive sul registro degli indagati Renato Cortese, l’ex capo della Squadra mobile di Roma che aveva lavorato con Pignatone anche a Reggio Calabria e Palermo. Il 14 ottobre scorso lo stesso Cortese, l’ex capo dell’Ufficio immigrazione Maurizio Improta, più altri due funzionari della Squadra mobile sono stati condannati a 5 anni per sequestro di persona. Sono state inflitte pene anche ad altri tre imputati, tra cui un giudice di pace. Dal processo sono rimasti fuori i magistrati della Procura di Roma.
C’entra qualcosa il fatto che, come giura Palamara, tra le due procure tornò presto il sereno? Ricorda il magistrato radiato: «Dopo poco tempo De Ficchy mi chiederà la testa della Duchini (coinvolta in un’indagine della Procura di Firenze, ndr) e si riappacificherà con Pignatone». La terza sezione del Tribunale di Perugia, presieduta da Giuseppe Narducci, storico esponente di Magistratura democratica, la corrente delle toghe progressiste, non ha ammesso, come richiesto dalle difese, la testimonianza dei due inquirenti titolari del fascicolo romano sulla Shalabayeva, Pignatone e il pm Eugenio Albamonte, ex presidente dell’Anm in quota Md. Il collegio ha, invece, condannato i poliziotti accusandoli di aver ingannato la Procura, non consentendo l’esatta identificazione della Shalabayeva che si era presentata come Alma Ayan.
Secondo i giudici dietro alle mosse dei poliziotti ci sarebbe stata una catena di comando che portava sino al vertice del ministero dell’Interno (i cui dirigenti, però, durante le indagini sono rimasti semplici testimoni) garante di un accordo «politico» tra autorità kazake e autorità italiane per una sorta di «extraordinary rendition» del marito della Shalabayeva, il ricercato Mukthar Ablyazov.
Va precisato che la biografia di Ablyazov non è quella di un perseguitato politico, ma di un semplice truffatore di caratura internazionale, con procedimenti in Usa, Seychelles, Isole vergini britanniche, Regno Unito e Francia, dove è stato arrestato due volte, l’ultima il 5 ottobre, per riciclaggio. Nei giorni che vanno dalla perquisizione all’espulsione (29-31 maggio 2013) Alma Shalabayeva ha continuato a sostenere di chiamarsi Ayan e l’avvocato Federico Olivo ha presentato istanza di interrogatorio usando quel cognome.
Gli stessi difensori hanno riferito in dibattimento che ciò faceva parte di una precisa strategia difensiva, nonostante fossero già in possesso dei documenti originali della donna dalla sera del 29 maggio. Ma davvero i poliziotti hanno ingannato i magistrati? Durante le indagini preliminari Albamonte è stato ascoltato come testimone.
Il pm ha raccontato che il giorno dell’espulsione ricevette l’avvocato della Shalabayeva, il quale assicurò che il passaporto diplomatico esibito dalla donna fosse autentico e non falso come sosteneva la Polaria di Fiumicino. Disse anche che «non tanto la signora quanto il marito era un oppositore politico del regime kazako e raccontò che anche da fonti aperte risultava questa circostanza».
Insomma sin dalla tarda mattinata del 31 maggio un magistrato esperto come Albamonte era stato informa to del fatto che la Shalabayeva fosse sposata con un presunto oppositore politico e che la situazione fosse delicata. Notizie che non spostarono il fulcro delle contestazioni: «Esaminati gli atti del procedimento ci convincemmo che la produzione della difesa non era da sola sufficiente a escludere la falsità del passaporto diplomatico centroafricano a nome Alma Ayan» ha spiegato a Perugia Albamonte. A verbale ha anche riferito che al telefono Improta gli aveva annunciato nuovi documenti, informandolo di avere un aereo a disposizione pronto a partire per il Kazakistan.
Il poliziotto inviò un’informativa con un oggetto che non lasciava dubbi: «Shalabayeva Alma alias Ayan Alma». Tra gli allegati trasmessi da Improta c’era anche, come confermato da Albamonte, una nota del consolato kazako dalla quale «risultava che la donna si indentificava in Shalabayeva Alma e non Ayan, che era in possesso di due validi passaporti kazaki e che poteva utilizzare un falso passaporto diplomatico di nome Ayan».
Quindi il pm doveva avere chiaro che la donna di cui si discuteva si chiamasse Shalabayeva e non Ayan. Eppure il pm romano davanti ai colleghi di Perugia si è autoassolto così: «Nessuno mi disse che le vere generalità della donna erano Shalabayeva Alma».
Nel pomeriggio del 31 maggio Albamonte, con i nuovi documenti, si reca da Pignatone: «Ne parlammo, esaminammo le carte e ci convincemmo che quel passaporto fosse falso e che l’identità personale della signora era il tema dal quale dovevamo trarre il nostro convincimento […]. Affrontammo anche il tema della posizione di Ablyazov rispetto al regime kazako, ma non fu centrale nelle nostre valutazioni».
Avete letto bene: che la Shalabayeva fosse la moglie di un presunto dissidente «non fu centrale». In quel momento i pm avevano due strade: rilasciare il nulla osta al rimpatrio della donna o attendere quanto meno l’interrogatorio. Nonostante la nota del consolato kazako, l’allarme lanciato dagli avvocati e l’oggetto dell’informativa di Improta, i pm diedero il via libera al rimpatrio della donna: «Per ragioni di chiarezza decidemmo di redigere il nulla osta all’espulsione in forma scritta […].
La decisione di rilasciare nello stesso pomeriggio di venerdì 31 maggio 2013 il nulla osta derivava dal fatto che mi era stato segnalata l’urgenza derivante dalla prevista partenza del volo per il Kazakistan. […] Non mi era stato rappresentato che l’espulsione potesse comportare dei rischi per l’incolumità della donna». Albamonte dichiara di aver appreso solo successivamente dall’avvocato Olivo che «il Kazakistan risultava da fonti aperte essere un Paese a rischio sotto il profilo della pretermissione dei diritti umani».
Ma allora perché il legale aveva informato Albamonte già all’ora di pranzo del fatto che la Shalabayeva fosse moglie di un dissidente? Come nota di colore? Albamonte aggiunge che «il nulla osta fu rilasciato con il nominativo che risultava iscritto a registro degli indagati, ovvero Alma Ayan». Il pm romano in Tribunale non ha dovuto ripetere la sua versione a nostro giudizio degna di approfondimenti. E chissà se la decisione di non sentire i magistrati capitolini sia collegata alla pace tra Procure negoziata da Palamara.
Commenta per primo