
Tempio di Segesta, arrivare si rimane subito incantati, paesaggio incantato
di Vanni Capoccia
Arrivare a Segesta si rimane subito incantati nel vedere da lontano il “Tempio di Segesta” così isolato in un paesaggio che si estende a vista d’occhio e lo circonda. Poi, come spesso succede in questi casi, iniziano le domande: chi erano gli Elimi che popolavano Segesta, se veramente fossero un popolo dell’Italia peninsulare.
Certo è che erano abbastanza potenti da confrontarsi con i greci di Selinunte e anche così intelligenti da capire che, guerra o non guerra, conveniva farsi colonizzare dalla cultura greca da cui il Teatro che dall’alto si apre sulla campagna e il Tempio.
Ed anche perché la presenza di due artisti contemporanei il greco Costas Varotsos con una spirale; e Mario Merz presente con dei numeri al neon, alcuni accesi altri pare fulminati, appesi alle colonne di un lato del Tempio che vanno con una progressione del tipo 1+1, 2; 3 +2, 5; 5+6, 11 e così via e con una spirale nell’agorà che forse diventa luminescente di sera.
E la domanda è sempre la stessa: che senso ha attaccarsi a un opera del passato rimanendo comunque da questa sovrastati dando l’impressione, in qualche modo, di parassitarla, quando tanti luoghi italiani avrebbero bisogno di essere resi più significativi e densi di senso dalla contemporaneità.
Resta la bellezza, si spera eterna, di questo tempio che si continua a guardare mano a mano che da esso ci si allontana, e quella rustica del paesaggio che senza soluzione di continuità lo circonda.
Ed anche la vera essenza dell’arte che è quella di costringere chi la guarda a porsi delle domande che se anche trovassero delle risposte costringeranno a porsene delle altre e altre ancora.
Vanni Capoccia
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